In questi giorni si è celebrata nel Salento la Notte della Taranta,
con tutto il corredo musicale della pizzica: è un’ottima occasione per
parlare di qualcosa di cui si rischia di perdere ogni percezione.
Le tarantate erano quasi esclusivamente donne. Come mai?
Come emerge anche nel documentario del 1961 La Taranta, il tarantismo manifesta soprattutto uno sfogo di sopravvivenza dai condizionamenti di una società rigidamente patriarcale, che riservava alle donne solo sfruttamento, nella preclusione di ogni libertà e dell’eros.
Come emerge anche nel documentario del 1961 La Taranta, il tarantismo manifesta soprattutto uno sfogo di sopravvivenza dai condizionamenti di una società rigidamente patriarcale, che riservava alle donne solo sfruttamento, nella preclusione di ogni libertà e dell’eros.
Una storia che si
ripete in tutto il pianeta. Le donne, ove siano oppresse dalla tremenda
violenza delle regole patriarcali, covano ovviamente profondi
malesseri, che spesso sfociano in gravi stati di depressione e inerzia,
oppure possono esplodere in terribili disperazioni. I maschi di ogni
epoca hanno dato la colpa di ciò all’utero, non certo alle alienanti
condizioni in cui hanno sempre costretto le loro compagne. Da cui il
termine “isteria”,
cioè sindrome che viene dall’utero. Qualcosa di molto simile al
principio che fa dire ai razzisti che i “negri” sono violenti: sono
fatti così! non è certo l’eterna miseria e umiliazione che li esaspera,
ma un’indegnità che deriva dal colore della pelle.
In epoca vittoriana le donne che si ribellavano emotivamente, o che
avevano la forza di esprimere un dissenso, venivano spedite in manicomio
dai premurosi mariti e padri, e lì spesso dovevano subire
l’asportazione dell’utero – come ci racconta il bel film Hysteria.
Il Salento, che fu abitato fin dal Paleolitico medio, conserva preziose
testimonianze di figure femminili, quali “la donna di Ostuni” (23-28.000
AC) e le due Veneri di Parabita (13-12.000 AC). In questa antica terra
le donne seppero trovare una via d’uscita alla pazzia verso cui le
spingeva l’oppressione. E come? Dando vita, fin dal premedioevo, al mito
delle “tarantolate” (che da lì si estese a tutto il Sud), cioè del
pizzico velenoso di un mitico ragno che induceva uno stato di tristezza o
di rabbia. Una “sindrome” a cui la saggezza popolare e femminile aveva
trovato una cura in un complesso rito incentrato su una musica ritmica e
in crescendo che riusciva a ridestare le donne catatoniche, o a
incanalarne la furia ribelle, tramite una lunga danza senza remore, veri
psicodrammi pieni di visioni e di rappresentazioni catartiche dei
propri demoni - che alla fine le lasciava esauste, in un bagno di
sudore, finalmente liberate dal “veleno del ragno”. Furono molte le prime giustificazioni che ci si diede, per inventare questo sapiente espediente. Il Sertum
di Guglielmo Marra da Padova, del 1362, accenna a una tradizione
popolare secondo cui la mitica tarantola, mentre morde le sue vittime,
produce un canto, che se viene imitato dona sollievo agli effetti del
morso. Nel 1513 il medico umanista Antonio De Ferrariis scriveva: la natura ha generato (nel Salento) un animale dannosissimo, un ragno, il cui veleno viene espulso al suono di flauti e tamburi.
Ad ogni modo la pratica presentava elementi magici che sfuggivano a ogni
controllo del potere. La religione tentò di arginarla ponendola sotto
l’egida di San Paolo, patrono di Galatina: ma le donne, a modo loro, più
o meno inconsciamente, si svincolavano da questa “protezione”
strappandosi oscenamente i vestiti di dosso, e addirittura orinando
sugli altari – in una sorta di rito di possessione in cui permangono
elementi del mito di Aracne. La donna che si trasforma in ragno, la sfida femminile nei confronti dell’ordine, e del divino usato a scopo repressivo, che libera l’elemento del soprannaturale nella musica e nell’arte.
Poi, con l’allentarsi della morsa dell’oppressione, la pratica
originaria è quasi scomparsa: le ultime vere tarantolate che si
ricordino risalgono agli anni Sessanta del Novecento. L’eredità
culturale e musicale che ne è rimasta è oggi rappresentata dalla
“pizzica”.
Ben vengano i festival della musica e del “folclore”: ma almeno noi
donne salviamo la cultura che vi sottende – che è ben altro dal
pittoresco.
E’ la nostra storia preziosa: quella che ci aiuta a ricostruirci, a
riconoscerci e a capire noi stesse, consentendoci di raggiungere una
vera identità autonoma. La storia che, proprio per questo, viene
sistematicamente, eternamente soffocata e insabbiata, manipolata,
distorta e infine annientata.
L’acqua te la funtana è mara mara - Ca se nu ‘nnera mara ca se nu ‘nnera mara
L’ acqua te la funtana è mara mara - Ca se nu ‘nnera mara ca se nu ‘nnera mara
Amore miu me la bbivia - Comu gira comu zzumpa e balla
Comu gira la nninella mia - Ci vorrebbe na zitella ci vorrebbe na zitella
Comu gira comu zzumpa e balla - Comu gira la nninella mia
Per goder la gioventù a mamma me mandau a li zanguni
ma ddittu ca sta sira ma ddittu ca sta sira
La mamma me mandau a li zanguni ma ddittu ca sta sira
amore miu su mmaccarruni
Marangia e marangella tu si ingiallita
mo vi’ ca ta’ futtuta mo vi’ ca ta’ futtuta
Marangia e marangella tu si ingiallita
mo vi’ ca ta’ futtuta amore miu la gelatura
Quando era zitu iu tuttu tiurnisi mo ca maggiu nzuratu mo ca maggiu nzuratu
Quando era zitu iu tuttu tiurnisi mo ca maggiu nzuratu, amore miu su comu li misi.
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